Prosciugare le risorse dei clan. Quelle economiche, ma soprattutto quelle umane, che consentono alla famiglia di ‘ndrangheta di perpetuarsi di generazione in generazione.

La tattica inaugurata con la richiesta di decadenza della potestà genitoriale per il capocrimine Giuseppe De Stefano, avanzata dall’allora pm Giuseppe Lombardo e in seguito ad una lunga battaglia procedurale e processuale avallata dal Tribunale dei minori di Reggio Calabria, ha fatto scuola in Calabria. Con il tempo, non solo i giudici hanno sempre più facilmente avallato i provvedimenti in tal senso chiesti dalla Dda, ma hanno anche accolto quei (pochi ancora) arrivati dalle famiglie e soprattutto dalle donne di ‘ndrangheta. Le loro storie sono state riportate sabato 3 febbraio a pagina 17 dal quotidiano la Repubblica, grazie all’associazione Libera che ne gestisce le difficoltà quotidiane. I nomi sono di fantasia, ma il vissuto è reale. Paola, 35 anni: «Mio padre era stato ucciso dalla mafia, lo stesso mio fratello e i miei zii. Tre anni fa guardavo i miei due figli di 15 e 12 anni: il grande andava su Internet per cercare informazioni sul nostro clan, aveva il mito dello zio ergastolano e si era convinto che andare in carcere fosse una tappa obbligata per ottenere rispetto. Il piccolo era fissato con i fucili a pompa, conosceva il nome di ogni pezzo. Ero tormentata ma alla fine ho detto a Di Bella "li do a voi, portateli via da qui"». Daniela, 37 anni, invece i figli li ha seguiti dopo l’omicidio del marito nel 2008. «Mi ha lasciato sola con tre figli e solo così ho capito che ci aveva costretto a vivere come schiavi. Ho abbandonato il clan insieme ai miei figli, oggi viviamo ma ci tocca nasconderci per colpa del nostro cognome». Rita invece ha scelto la stessa strada ancor prima che venissero emesse sentenze e firmati protocolli. «Si può avere un altro futuro anche se si è nati in una 'ndrina, basta avere coraggio – afferma – alle donne calabresi dico che la forza di una mamma vince su tutto». Dopo anni di lavoro solitario, la strategia della Dda e del Tribunale di Reggio Calabria è diventata un protocollo firmato dal governo, dal procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, dalla Conferenza episcopale italiana e dal presidente di Libera don Luigi Ciotti, per estendere l'iniziativa a tutto il territorio nazionale. Sono stati stanziati 300mila euro, metà dal dipartimento per le Pari opportunità, metà dalla Cei, per il sostegno alle comunità, alle case famiglia e alla rete degli psicologi coinvolti. Ed è importante, dice Di Bella, perché i risultati ci sono. Sono 50 i ragazzi che sono stati tolti alle famiglie e sette le madri che hanno chiesto di intraprendere il medesimo percorso insieme ai figli. «Dieci di loro sono diventati maggiorenni – racconta il magistrato – di questi, cinque sono rimasti fuori dalla Calabria a lavorare, gli altri sono tornati ma solo uno è incappato nella giustizia e non per un reato di mafia. Altre mamme ci stanno pensando e per la prima volta anche un padre, dal carcere, ha apprezzato ciò che stiamo facendo. La rete delle diocesi e della Caritas ci sta dando una mano importantissima». Quello che manca spesso è il sostegno del resto della rete istituzionale. «Ci sono comuni calabresi i cui assistenti sociali per paura si rifiutano di andare a prelevare i ragazzi, e anche le scuole non collaborano come potrebbero», dice Di Bella. Ma si continua a lavorare.

Qui sotto il file pdf della pagina de La Repubblica di sabato 3 febbraio

 

Crediti