Dopo le disavventure nell’HOTEL Banatul, decisi di accorciare il mio soggiorno nella città rumena di Timisoara.

Trascorsi l’ultima notte  dell’anno in un malinconico veglione allestito nel salone ristorante  dell’Hotel, addobbato con ridicoli festoni colorati e “allietato” con le stucchevoli musiche popolari che volevano dare l’impressione di un fasto di regime in cui persino l’allegria era contingentata dallo Stato e dosata con le modeste possibilità consentite da una fallimentare economia che si faceva carico persino dello svago. Per l’occasione, comparivano sulle mense beni alimentari che, di solito, non erano disponibili se non al mercato nero (“la negru”, si sussurrava, in segreto). Questa parvenza di benessere veniva ostentata sotto lo sguardo austero  del grancapo, Ceausescu, il cui gigantesco ritratto, appeso alla parete, dominava la scena, quasi a voler essere ringraziato per l’eccezionale possibilità di disporre di carne, vino, spumante e cognac a volontà, tutta merce che, di solito, era destinata all’esportazione che fruttava un po’ di ossigeno, in valuta pregiata occidentale necessaria a rinsanguare le casse dello Stato afflitta da endemica miseria. La mattina di capodanno presi posto in uno scompartimento del treno diretto a Belgrado. Non c’era alcuna animazione nella stazione di Timisoara, e nemmeno sul treno, in cui mi sembrò di essere l’unico viaggiatore. Alla frontiera fui sottoposto alle verifiche doganali, prima dalla milicia rumena, dietro esibizione del passaporto su cui apposero uno dei soliti giganteschi timbri che attestavano l’uscita dal territorio, poi dalla milicia jugoslava che, dopo una sbirciatina nel mio bagaglio, provvedeva ad apporre il suo timbro di entrata. Accovacciato sul sedile vicino al finestrino, dissi, tra me e me, che finalmente potevo stare tranquillo fino a Belgrado. Ma così non fu. Il BANATO, quella vasta regione a cavallo tra ROMÂNIA e SERBIA, è abbondantemente popolato di zingari. E fu appunto uno zingaro che, dopo la prima fermata in Serbia, si affacciò nello scompartimento e, stette ad osservarmi, senza manifestare alcuna intenzione di voler prendere posto. Lo studiai attentamente. Malmesso nel vestire, alto, magro e dinoccolato, ostentava una orripilante cicatrice sul volto che scendeva in verticale dall’arcata sopraccigliare sinistra e, dopo aver attraversato la palpebra e la guancia, sfiorando le labbra, arrivava fino al mento. Quella coltellata, perchè con certezza era stata una coltellata a creare quello sfregio, gli aveva non solo deturpato il viso, ma eliminato l’occhio la cui orbita restava ormai nascosta da quella inerte palpebra socchiusa e devastata da qualche orribile fendente. Dopo una lunga pausa mi rivolse la parola in rumeno (gli zingari del Banato parlano sia il ripumeno che il sebo) : “De unde esti ?”(di dove sei?) - Italiano. “Atunci ai bani ! ” (allora hai soldi ! ) Ed io : Putin (Pochi). Ma ebbi l’impressione di non averlo convinto sull’entità dei miei soldi. Rapidamente progettai un piano di difesa da una eventuale aggressione. Consapevole che contro un uomo armato di coltello a nulla serve la forza dei pugni escogitai di rimanere seduto e, in caso di attacco, facendo leva con i gomiti  sui braccioli del sedile, reagire violentemente con gli arti inferiori in cui i piedi, destinati all’impatto, sono protetti dalle suole di para e, poi, incalzarlo con i calci fino a fargli sfuggire di mano il coltello. Ero deciso a tutto, consapevole che per uno zingaro, specie se recidivo da lotte di coltello, un delitto non pesa più di tanto, quando può fruttare un po’ di “bani”. Era, il mio, il coraggio della disperazione. Ma, siccome nella vita sono sempre stato fortunato, come per miracolo, in quel treno quasi vuoto, comparve il controllore che, per prima cosa, chiese a lui il biglietto, e lui, che ne era sprovvisto (ve lo immaginate uno zingaro che viaggia munito di biglietto?) balbettò in serbo qualcosa. Ma il controllore, che era più tosto di lui, dopo aver chiesto a me il biglietto, se lo portò via per farlo scendere alla prima stazione. Tirai un sospiro di sollievo e mi ripromisi di non prendere mai più, nella mia vita, un treno nei Balcani, nemmeno se ospitato nei Wagon-lit. Ma che dico, nemmeno nel wagon-Restaurant.

 Ernesto SCURA

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