di Andrea Monda (articolo tratto dall'Osservatore Romano di oggi)

Il tempo è quella cosa che sempre manca. Come abbiamo già ricordato ieri su queste pagine, la frase che ripetiamo più spesso, noi frenetici uomini e donne dell’Occidente, è “Scusa, ma non ho tempo”.

Non possediamo mai tempo a sufficienza, e viene il dubbio che sia il tempo a possedere le nostre vite. Sembra che non sappiamo “ottimizzare” il nostro tempo, non per riuscire a fare “più” cose, ma per riuscire a fare le cose che contano “di più”. Qualità anziché quantità, essere anziché avere. Siamo invece deficitari in discernimento, eppure noi esseri umani, dotati di coscienza, dovremmo possedere gli strumenti per giudicare: «Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» ci chiede esplicitamente Gesù nel Vangelo di Luca (Lc 12, 57). Con la stessa schiettezza il 27 marzo del 2020 Papa Francesco, durante la Statio Orbis svoltasi sotto la pioggia nella piazza San Pietro solitaria, ci aveva esortato a dare un giudizio, «a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è». Quei giorni della primavera del 2020, il lockdown per la pandemia, quei mesi chiusi in casa, quegli anni in cui il tempo si era dilatato e il moto abitualmente frenetico si era dovuto arrestare, tutto quel tempo è andato via, scivolato in un oblio che ancora oggi ci confonde per cui non sappiamo ricordare le date e le circostanze di quel periodo di crisi, una crisi che secondo il Papa era un’occasione feconda da custodire e da non sprecare. Ma cosa ne è stato? Abbiamo fatto tesoro di quel “time out” della storia? O abbiamo rimosso e buttato alle spalle quell’esperienza così straniante per ritornare alle nostre vecchie abitudini, magari con un aggressivo senso di rivalsa e di “recupero” del tempo perso? Il dubbio c’è, al punto che nell’esortazione apostolica Laudate Deum pubblicata tre giorni fa il Papa ha dovuto ammettere che «è deplorevole che le crisi globali vengano sprecate quando sarebbero l’occasione per apportare cambiamenti salutari. È quello che è successo nella crisi finanziaria del 2007-2008 e che si è ripetuto nella crisi del Covid-19» (LD 36). Tempo perso, tempo sprecato. Torniamo sempre lì, al nostro rapporto con il tempo, questa “cosa” che ci sfugge sempre tra le mani. Eppure lo sappiamo che è lì che si gioca la nostra vita, nel nostro rapporto con il tempo. In questo enigma, come in tante altre cose, ci possono aiutare i poeti. Uno dei maggiori del XX secolo, T.S.Eliot ci ricorda (questo fanno i poeti: ci ricordano) che «senza significato non c’è tempo» e, ripensando al momento dell’Incarnazione del Verbo, afferma che «quel momento di tempo diede il significato», per cui noi uomini «Bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati e ottusi come sempre lo furono prima, eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce, spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un’altra via». Cogliere il significato che corre sotto traccia, tra le righe delle pagine del tempo e della storia che spesso ci appaiono bianche, mute. Questa è la sfida. La proposta, la risposta cristiana la conosciamo, la sintetizza la prima lettera di Giovanni quando sentenzia che «Dio è amore», un’affermazione sulla quale Agostino dirà che se anche tutto il testo biblico fosse andato perduto tranne questa frase, il significato essenziale della Scrittura si sarebbe salvato. L’amore è la risposta, nell’amore tempo e significato coincidono. C’è una strana definizione di “amore ” che secondo Jacques Lacan sarebbe “donare ciò che non si ha” e se pensiamo al tempo lo si può comprendere meglio: quando amiamo doniamo, dedichiamo, il tempo della nostra vita agli altri, diamo cioè proprio quello che non abbiamo mai, il tempo. Non lo abbiamo ma lo abbiamo ricevuto come dono. Che non abbiamo ma siamo. Il dono è sempre di qualcosa che non si ha, ma si è. In ogni vero dono che facciamo noi doniamo noi stessi. Ecco perché nel momento più alto della sua avventura umana Gesù dirà ai suoi amici «questo è il mio corpo offerto per voi»; il corpo, un’altra cosa che non abbiamo ma che siamo. Il significato della vita è in questa strano gesto, amare, che, unico, spezza la logica consecutiva del tempo. Amando ci concediamo un’eccezione, aprendo una breccia nell’apparente ineluttabilità del tempo che scorre e travolge tutto. Ecco perché il filosofo Gabriel Marcel di cui ricordiamo i 50 anni dalla morte, poteva dire che «quando un uomo dice a una donna “ti amo” le sta dicendo “tu non morirai”». Da questo punto di vista la proposta che il Papa ha fatto avviando questo Sinodo, di prendere una pausa, di fermarci tutti per un po’ di tempo, va nella stessa direzione. Spezzare l’ordine del tempo, per dare spazio al tempo dell’amore, quello che ha a che fare appunto con il significato, con la qualità non con la quantità, con l’essere e non con l’avere, con il chairòs non con il crònos. I “cronisti” che si occupano nei giornali di “cose vaticane” forse ora cominciano a rendersene conto ma nell’aula del Sinodo si sta tentando un’esperienza nuova e al tempo stesso antica, che risale alle origini, a quando Dio ha creato il mondo e l’uomo e con esso il tempo, dando il via alla storia umana che trova come unica via per il senso e quindi per la felicità, nell’amore e nella donazione di sé.

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