La Piana di Sibari tra conservazione e sviluppo
Articolo pubblicato sulla rivista Il Serratore n. 13 ottobre 1990
Nel 1879, l'archeologo francese Francois Lenormant, partendo da Taranto, visita tutta la Calabria. Arrivato nella Piana di Sibari ne riceve una duplice, vivissima, impressione.
Da una parte rimane incantato dalla bellezza dei luoghi: "Non credo che esista in nessuna parte del mondo qualcosa di più bello della pianura ove fu Sibari", (scriverà nel suo La Grande Grèce, pubblicato nel 1881) ). Dall'altra non può fare a meno di sottolineare lo stato di abbandono in cui versano le "lussureggianti praterie che non si falciano mai e sono deserte. Non si vedono che armenti infiniti che pascolano solitari e quasi selvaggi, dei tori bianchi immersi sino al ventre in un'erba in credibilmente folta, e dei bufali che ricercano di preferenza i punti più fango si, le pozzanghere d'acqua morta ed i fossi, dove amano tuffarsi per sfuggire agli ardori del sole. La febbre regna sovrana in queste bassure paludose". Ne risulta un territorio diviso fra la florida apparenza delle piccole città disseminate sulle montagne circostanti e la desolazione che caratterizza la pianura. Lo studioso francese si rifugia allora nei ricordi dell'antichità. I bianchi buoi, il corso de] Crati, l o splendido paesaggio gli richiamano alla mente un'epoca in cui la naturale armonia territoriale del sito era stata sapientemente valo rizzata. Artefici di questo miracolo erano stati i coloni achei che, sul finire dell'ottavo secolo a.C., avevano fondato tra i fiumi Crati e Sibari, l'odierno Coscile, una nuova città. Abili agricoltori, affamati di terre da coltivare, quelle sterminate pianure ap parvero ai loro occhi un dono degli dei. Eseguirono così imponenti lavori di drenaggio, di bonificazione e di canalizzazione; sfruttarono le foci navigabili dei due fiumi, che allora avevano corsi separati, creando un porto che fece di Sibari l'emporio del Mediterraneo; regolarono al meglio i rapporti con le popolazioni indigene. Ben presto le campagne mantennero tutte le promesse di fertilità: frumento ed orzo in abbondanza, orticoltura rinomata, alberi da frutta copiosissimi. Sulle colline l'olivo e la vite producevano ricchezze immense. I vini della regione erano celebri. Si tramanda la notizia, attribuita ad Ateneo, secondo la quale i Sibariti per trasportare il vino dai vigneti collinari fino ai depositi siti in riva al mare avevano impiantato una specie di wine-line di condutture in terracotta. La notizia, pur inverosimile, testimonia l'importanza della viticoltura e del commercio vinicolo ad essa connesso e la complessità delle strutture produttive e distributive impiantate nella Piana. Più in alto i densi boschi di cui i monti erano rivestiti fornivano legni di diversa qualità, come il pioppo, l'abete, il faggio, il castagno, l'elce e l'orniello. Di buona qualità il miele, la cera e la pece. Nelle aree destinate a pascolo si ricavavano dagli allevamenti lana e cuoio sia per le esigenze locali, sia per l'esportazione. Tutte queste risorse, infine, furono ulteriormente incrementate dalla creazione di un ricco tessuto di infrastrutture e di insediamenti umani, esteso dalla pianura alle alture che la circondavano. Le favorevoli condizioni geografiche ed ambientali venivano così validamente impiegate per uno sviluppo economico ed un progresso civile che fecero rapidamente di Sibari la prima città greca d'Italia. A questo mirabile equilibrio tra il mare ed i monti, la pianura e le acque, venne inferto un duro colpo nel 510 a.C. quando, dopo una violenta battaglia ed un lungo assedio, Sibari fu distrutta dall'esercito della rivale Crotone. La potente e ricca colonia greca, che era arrivata a comprendere sotto il suo dominio venticinque città e quattro popoli, scomparve sotto le acque del Crati. Per la pianura cominciò un lento ma inarrestabile processo di degrado ambientale. Fiumi e torrenti, non più adeguatamente controllati, divennero rovinosi nelle loro disordinate discese a valle. L'incolto, la palude, la malaria conquistarono pezzi di territorio sempre più estesi. Le infrastrutture produttive ed insediative decaddero. Gli abitanti del fondovalle si rifugiarono sui centri abitati delle vicine alture, che si svilupparono in modo sempre più spiccato ed autonomo. Un organismo compiuto e complesso, che si reggeva sulla interdipendenza delle risorse e delle attività, subì una lacerazione forse irrimediabile. A poco a poco "Sibari" si trasformò in una semplice espressione geografica: il nome astratto di una località celebre per un glorioso passato. Nel corso dei secoli successivi, prima i romani, poi i bizantini, gli angioini, gli albanesi, i feudatari ed infine i governanti borbonici e dell'Italia unita tentarono invano di riportare all'originario splendore quelle terre che ai Sibariti avevano dato tante ricchezze. In questa lotta dell'uomo contro la natura le popolazioni della zona pagarono un contributo altissimo di sofferenze e di fatiche, nella speranza di ridare alla pianura la perduta fertilità. Solo in questi ultimi decenni è stato possibile registrare alcuni importanti passi avanti in questa direzione. La bonifica integrale negli anni trenta del Novecento, la riforma agraria attuata a partire dal 1950, l'adozione del DDT nella lotta contro la malaria, l'imponente intervento pubblico negli anni '50 e '60, hanno contribuito ad una radicale trasformazione del paesaggio agrario ed urbano della Piana. All'odierno visitatore la Sibaritide si presenta densamente abitata, igienicamente risanata (solo le moleste zanzare tramandano ancora il ricordo della malaria!), adorna di grandi distese di 'giardini" d'aranci e mandarini. Fiumi e torrenti sono stati finalmente imbrigliati, moderne superstrade l'attraversano da un capo all'altro, sul litorale sorgono complessi turistici d'avanguardia. I bufali e i tori bianchi, che tanto avevano colpito i visitatori nei secoli scorsi, si vedono ormai solo nei libri o nelle antiche stampe. Eppure il benessere, (che è arrivato, anche se non per tutti) è accompagnato da una sensazione di precarietà che suscita inquietudine. I commerci estesi e le attività fiorenti producono uno sviluppo economico apparentemente solido, in realtà fragile, troppo condizionato da imprevedibili fattori esterni. Dopo le grandi speranze nate negli anni '60 e '70 appare evidente che la lacerazione avvenuta nel comprensorio 25 secoli prima non è stata ancora ricomposta: ne sono stati, semmai, invertiti i termini. Adesso è la pianura che ha una forte capacità d'attrazione, mentre le alture che fanno da corona diventano sempre più povere e marginali. La forte spinta demografica verso il fondovalle ed i litorali crea le condizioni per una crescita edilizia disordinata e caotica, provoca l'abbandono dei centri storici, rende deserte le colline e le montagne. Bisogna saper ascoltare la lezione della storia. Sibari fu ricca e potente perché assecondò le naturali vocazioni dell'intero comprensorio, perseguendo uno sviluppo basato sull'equilibrio tra risorse, ambiente, attività economiche, insediamenti umani, sviluppi culturali, infrastrutture. Attuò quella che oggi diremmo una politica di valorizzazione globale dei beni territoriali. Ebbene, si deve ritornare a questo tipo di politica, abbandonando le scorciatoie (sul tipo della "provincia"!), dicendo basta alle rivendicazioni settoriali ed alle furbi zie municipalistiche. Alcuni anni or sono, proprio a Corigliano, si tenne un convegno, basato sull'esame di una ipotesi di "crescita culturale, di sviluppo economico e di organizzazione territoriale" dell'area della Sibaritide. Era una buona occasione per avviare un discorso in tale direzione, ma l'iniziativa non ebbe alcun seguito. Perché non riprenderla ed approfondirla? Tra sviluppo e conservazione, nella Piana di Sibari, la distanza purtroppo è ancora minima.