di Francesco Campise*

Il conflitto israelo-palestinese è uno dei più complessi e longevi della storia contemporanea, ma troppo spesso viene raccontato in modo parziale, ignorando le sue radici e i suoi veri protagonisti.

Oggi, parlare di Israele significa parlare di uno Stato democratico che da quasi ottant’anni cerca di sopravvivere in una regione dove la sua stessa esistenza viene messa costantemente in discussione. Per capire l’attuale situazione, bisogna tornare alla fine della Prima guerra mondiale. Con la caduta dell’Impero Ottomano, la Palestina passò sotto il Mandato britannico. In quell’epoca, il territorio era abitato da comunità miste: ebrei che da secoli non avevano mai abbandonato del tutto quella terra e popolazioni arabe che si erano insediate nel tempo. La Dichiarazione Balfour del 1917 aprì la strada alla creazione di una “casa nazionale ebraica”. Questo principio trovò pieno riconoscimento con la risoluzione ONU del 1947, che prevedeva la creazione di due Stati: uno ebraico e uno arabo. Israele accettò il piano, mentre i Paesi arabi lo respinsero. Nel 1948, con la nascita dello Stato d’Israele, gli Stati arabi circostanti lo invasero. Quella guerra segnò l’inizio della questione dei rifugiati palestinesi, che i Paesi arabi decisero di non integrare nei propri territori, mantenendoli nei campi profughi per ragioni politiche. Una parte trovò invece posto in Israele, che con fatica concesse loro alcuni diritti civili. Dal 2007, la Striscia di Gaza è sotto il controllo di Hamas, un’organizzazione terroristica riconosciuta come tale da gran parte della comunità internazionale. Con un colpo di forza, Hamas espulse l’Autorità Palestinese e instaurò un regime fondato sull’odio e sulla repressione. Le risorse del territorio vengono investite in razzi, tunnel e armamenti, non in scuole, ospedali o sviluppo. I civili di Gaza vivono in una condizione disperata, usati come scudi umani e strumenti di propaganda. Lo statuto di Hamas non prevede la coesistenza con Israele, ma la sua eliminazione. La storia recente è segnata da numerosi attentati contro civili israeliani e cittadini ebrei in tutto il mondo: dalle Olimpiadi di Monaco del 1972, al sequestro dell’Achille Lauro nel 1985, fino agli attacchi suicidi degli anni ’90 e 2000 che colpirono città israeliane come Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa. Oggi, i razzi lanciati da Gaza continuano a colpire indiscriminatamente città e villaggi israeliani, costringendo milioni di persone a vivere sotto la minaccia costante degli allarmi e dei rifugi. Eppure, in molte piazze e università occidentali, la propaganda di Hamas riesce ancora a mascherarsi da “resistenza”. Un certo mondo politico e culturale, soprattutto in Europa, ha finito per abbracciare un filoislamismo superficiale, confondendo la legittima aspirazione dei palestinesi a vivere in pace con la retorica violenta di un’organizzazione terroristica. La pace, in questa terra ferita, non nascerà da conferenze o dichiarazioni di buone intenzioni. Nascerà solo quando finirà il dominio della paura. Gaza deve liberarsi dal giogo di Hamas, perché non si può costruire un futuro dove ogni scuola diventa un arsenale e ogni bambino cresce sotto un manifesto di odio. Solo smantellando la macchina della guerra potrà nascere una società che investa in vita, non in morte. Ma non basta. Servirà una presenza internazionale capace di proteggere, non di imporre; di garantire sicurezza, ma anche dignità. Servirà un patto nuovo, dove Israele non dovrà più temere l’annientamento e i palestinesi non dovranno più scegliere tra silenzio o estremismo. La pace non si decreta, si costruisce mattone dopo mattone: con scuole al posto dei bunker, con lavoro al posto della rabbia, con il riconoscimento reciproco al posto del sospetto. Perché solo quando entrambi i popoli sapranno guardarsi senza vedersi come nemici, ma come sopravvissuti alla stessa tragedia, allora — e solo allora — potremo dire che il Medio Oriente ha trovato la sua voce umana. La sicurezza di Israele non è solo un affare regionale: è parte integrante della sicurezza del mondo libero. Ignorare la minaccia di Hamas significa permettere che il terrorismo continui a diffondersi e a destabilizzare il pianeta. Israele non chiede privilegi, ma il diritto di esistere e di vivere in pace. Garantire questo diritto significa garantire un futuro più stabile e umano per tutti.

*studente

 

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