In Kenya, dove sono per un viaggio umanitario, mi giunge la dolorosa notizia della ferita inferta alla Sibaritide. Quanto accade sotto i nostri occhi non può lasciarci indifferenti, anche se qualcuno, girando la testa dall’altra parte, semplicisticamente afferma che è solo un regolamento di conti tra ‘ndranghetisti.

Il nostro territorio famoso per storia e bellezza, patria di uomini e donne testimoni di amore e di santità cristiana, non può e non deve far finta di niente, delegando tutto agli ordini inquirenti o, peggio ancora, nutrendo di connivenza i canali sommersi con cui la ‘ndrangheta schiavizza i nostri territori. Il duplice efferato omicidio, volutamente enfatizzato nella sua esecuzione, è un chiaro monito a rimanere col capo chino, a non tentare di inerpicarsi per strade proibitive. Un messaggio lanciato all’interno delle relazioni criminali ma anche all’esterno. Come pastore di questa Chiesa, in cui è avvenuto tale evento criminale, ritengo dover interrogare la mia coscienza e quella di coloro che mi sono stati affidati nella cura pastorale. Come credenti, come istituzioni, come uomini e donne di buona volontà, non possiamo rimanere indifferenti, non possiamo e non dobbiamo mettere la testa sotto la sabbia. La ‘ndrangheta ha espugnato da tempo le nostre piazze, i nostri spazi d’incontro e di relazione, infettando tutto con l’illegalità, la droga, l’usura e il pizzo. A volte entra anche nella gestione delle nostre feste. Spazi di vita dove si tenta di decollare con la bellezza e la dignità del vivere sono costantemente sotto attacco, fiaccando la volontà e la forza di chi desidera e sogna una vita migliore. A quanti vivono con dolore e fatica, a quanti desiderano tentare il cambiamento, a tutti di buona volontà chiedo di non scoraggiarci: non pieghiamo la testa, proviamo a metterci insieme, a costruire percorsi educativi che ci portino fuori dalle secche della rassegnazione. Dobbiamo riappropriarci della nostra vita, delle nostre strade, delle nostre piazze e lo dobbiamo fare non per noi stessi soltanto ma per i nostri figli, costretti ad “evadere” come da un “carcere” in cui la vita li ha posti. Il male s’incarna, ricordiamocelo, e stritola la speranza con le sue spire venefiche. Il male va combattuto, non da soli, ma con l’aiuto della nostra fede in Dio e di quanti operano a servizio della legalità. Come Davide dinanzi a Golia, siamo chiamati a scagliare il nostro piccolo ciottolo, da protagonisti della nostra storia, certi che l’aiuto desiderato non ci verrà a mancare. Denunciamo chi tenta di rubarci la vita, giorno per giorno, e ricostruiamo comportamenti e atteggiamenti capaci di dare forza e vitalità al vivere sociale. Insieme possiamo.                                                       

Mons. Giuseppe Striano Arcivescovo Rossano Cariati

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