Articolo tratto dal magazine online:  Calabria Ecclesia

di Roberto Allegri

Il dottor Giovanni Scarale viene ad aprirmi il portone della sua bella casa. Ha ottant’anni ma non li dimostra assolutamente. E’ un bell’uomo, elegante e dal volto abbronzato, con l’andatura energica e sportiva di chi da giovane è stato un atleta. E infatti poi mi confida che ha giocato seriamente a calcio. Attraversiamo un giardino curatissimo ed entriamo all’interno per accomodarci in una stanza piena di quadri.

Il dottor Scarale mi fissa intensamente e sulle prime faccio fatica a decifrare il suo sguardo. E’ un insieme di attesa e timore, non è uno sguardo imbarazzato ma decisamente velato di tristezza. “So già che lei mi farà ricordare un momento molto doloroso”, mi dice.  “Quella sera del 23 settembre 1968, quarantanove anni fa, è come scolpita dentro di me. Il senso di perdita che tutti noi abbiamo provato quando il Padre se ne è andato, ci ha ferito e ci ha lasciato una cicatrice. La fede mi dice che Padre Pio è più vicino a noi ora di quanto non lo sia mai stato. Il fatto è che ero cresciuto con lui, come tanti altri nati qui a San Giovanni. La sua presenza era una certezza, una benedizione quotidiana e così, in quel momento, trovarci di colpo senza di lui fu come ricevere un pugno in pieno volto”. Il dottor Scarale abbassa per un attimo il capo, si guarda le mani. Poi sospira e sussurra: “Padre Pio è morto tra le mie braccia. Quella notte ero l’unico anestesista rianimatore disponibile. Mi chiamarono nella sua cella e rimasi con lui fino all’ultimo istante”. “Come ho detto, sono nato a San Giovanni Rotondo e perciò fin da piccolo ho imparato a volere bene a Padre Pio. Ricordo che le mamme portavano sempre i figli piccoli al convento per metterli sotto la sua protezione. Da ragazzino frequentavo i frati perché lì c’era un circolo giovanile dove si poteva giocare a ping-pong. E ogni tanto, Padre Pio veniva a trovarci. Ci sorrideva, ci dava la sua benedizione. Era molto paterno, si informava su quello che ci piaceva fare, sulla nostra famiglia. Però ricordo che il suo sguardo ci metteva un po’ di paura. Era profondo, magnetico, sembrava potesse farti la radiografia. Era uno sguardo che diceva: Non dire bugie perché so già tutto”. “Ho sempre lavorato in Casa Sollievo della Sofferenza, l’ospedale fondato da Padre Pio. Mi sono laureato nel 1960 e nel ’62 venni assunto a Casa Sollievo come  medico di guardia. In seguito mi specializzai in cardiologia e quindi in anestesia e rianimazione. Era un periodo bellissimo. A quei tempi, noi medici dell’ospedale eravamo soltanto in diciotto. Ricordo che andavamo spesso, nelle pause, a trovare Padre Pio al convento. Lui ci accoglieva sulla verandina che stava al primo piano. Si interessava sempre dei pazienti e voleva sapere come stavano, se miglioravano ma soprattutto se venivano accuditi con amore. Noi medici gli chiedevano sempre una benedizione ma erano in particolare i chirurghi a chiedergli una preghiera speciale in vista delle operazione che dovevano svolgere. Il Padre ascoltava tutti e alzava la mano coperta dal guanto nel segno della croce. Ai medici più giovani suggeriva: “Dovete mangiare. E bere lu vino buono. Che dovete crescere!” “Poi mi guardava e sorridendo mi diceva: E tu, addormentatore, che mi dici?”. Mi chiamava “addormentatore” perché facevo l’anestesista. Io gli rispondevo: “Padre, ad addormentare i pazienti ci penso io ma a svegliarli ci dovete pensare voi!”. “Il suo sguardo allora valeva mille risposte. Sapevo che vegliava sul nostro operato. Tutti noi eravamo tranquilli in sua presenza. Era come confidarsi col proprio genitore. Ci sentivamo amati e protetti. Ci siamo sempre sentiti così, anche dopo la sua morte. La sala operatoria fa venire i capelli bianchi prematuramente tante sono le responsabilità gigantesche che si hanno. Eppure è sempre stato come se Padre Pio fosse presente. Noi medici avevamo la netta impressione che una cappa di proteggesse. Ci accorgevamo che un “qualcosa” di speciale ci era sempre accanto, specie appunto in sala operatoria”. “Stare con il Padre era bellissimo. Era amichevole, affettuoso ed era sempre l’anima della compagnia. Raccontava barzellette, faceva battute, ci prendeva in giro bonariamente. E mai parlando l’italiano ma sempre in dialetto campano”. “Ricordo un fatto divertente. Io sono sempre stato un grande appassionato di calcio. Fino alla laurea, giocavo da semi professionista. E un giorno, ecco che in convento arriva la squadra dell’Inter con il leggendario allenatore Helenio Herrera. Era un evento imperdibile per chi come me era uno sportivo appassionato. Era il 30 gennaio del 1965. Nel campionato di quell’anno, il Foggia aveva fatto il suo debutto in serie A e il 31 gennaio avrebbe giocato proprio contro l’Inter che era considerata la squadra più forte in assoluto. In trasferta in Puglia, Herrera aveva deciso di portare i giocatori da Padre Pio, chissà forse per avere anche lui una speciale benedizione. Quando il Padre vide tutta quella gente nel corridoio, chiese a noi che eravamo lì vicino: “E questi chi sò?”. “Padre, è la squadra dell’Inter, la squadra di Milano. Domani hanno la partita col Foggia”, rispondemmo. E lui sorridendo: “E che sò venuti a fà? Tanto domani perdono. Però, vinceranno lo stesso lo scudetto”. “Il giorno dopo l’Inter perse 3 a 2. Fu una vittoria storica per il Foggia che era una squadra di provincia. In quel campionato l’Inter perse solo due partite e una di queste proprio con il Foggia. In seguito però, l’Inter recuperò e vinse lo scudetto proprio come aveva detto il Padre”. “Ora però credo sia il momento di parlare della notte del 23 settembre 1968”, dice il dottor Scarale facendosi serio. Poi comincia a raccontare tenendo quasi gli occhi chiusi, tirando fuori i ricordi da uno scrigno profondo, avvolti da un’emozione difficile da trattenere. Ci sono alcune lacrime che scendono sul suo viso. “La notte in cui Padre Pio morì, venni chiamato d’urgenza. All’ospedale eravamo solo in due anestesisti rianimatori ma il mio collega, il dottor Angelo Cavalluzzo, aveva avuto un piccolo incidente ed era ingessato. Così, quello a disposizione ero io. Allora non ero sposato e abitavo a casa dei miei genitori. Verso le due di notte mi telefonarono. Era il professor Sala, il medico curante di Padre Pio. “Giovanni”, mi disse, “prendi l’occorrente e vieni subito al convento perché Padre Pio sta male. Ma sbrigati altrimenti rischi di non vederlo più in vita”. “Quelle parole mi raggelarono. Padre Pio aveva 81 anni e da tempo non stava bene. Ma tutti avevamo come l’idea che potesse restare con noi per sempre. Rimasi in istante senza dire nulla. Poi mi ripresi, chiesi a Sala di avvisare il direttore sanitario, saltai in macchina e andai in ospedale a prendere il necessario per un’eventuale intubazione. Ricordo che era una notte limpidissima. Guardando il cielo, vidi che la volta era tutta una meravigliosa stellata. Corsi al convento e salii le scale verso la cella del Padre come volando. Lì c’erano il dottor Sala e il padre guardiano, padre Carmelo da San Bartolomeo in Galdo. Mi fecero cenno di entrare”. “Padre Pio era seduto sulla sua poltrona. Era molto pallido. Aveva i gomiti appoggiati sui braccioli e la testa semiflessa. Nella mano destra teneva la corona del Rosario. Bisbigliava delle parole che in un primo momento non riuscii a capire ma poi, avvicinandomi, mi resi conto che ripeteva in continuazione: “Gesù, Maria. Gesù, Maria.”  Aveva il sondino nasale collegato ad una bombola di ossigeno poggiata a terra, accanto alla poltrona. Mi misi all’opera. Per prima cosa, gli tolsi il sondino, scollegai il tubo che aveva e agganciai il “va e vieni”, un apparecchietto che porta l’ossigeno al paziente attraverso una mascherina. Poi, mi misi alle spalle del Padre e gli tenni la mascherina sul viso per farlo respirare. In genere, quando si compie una simile operazione su un paziente, questo cerca per riflesso di allontanare la maschera. Padre Pio invece non si mosse. Era come se fosse estraneo a tutto quello che gli stava accadendo. Io lo incitavo dolcemente dicendo: “Padre respiri. Padre respiri”. Intanto erano entrate anche altre persone e anche loro lo incoraggiavano a respirare”. “Come ho detto, ero alle sue spalle. Con la mano sinistra tenevo la mascherina sul suo viso e con la destra sentivo il polso sulla carotide. Nel frattempo, si avvicinò anche padre Paolo Covino e impartì l’estrema unzione”. “Non so dire quanto tempo durò l’assistenza. A pensarci, sembra un’eternità. Adesso che sto ricordando quei momenti, sento ancora l’emozione e anche la paura che avevo. Sì, ero molto spaventato. Ma nello stesso tempo freddo. Cercavo di compiere tutto con calma e decisione. Poi, all’improvviso, il polso carotideo scomparve. Allora, Padre Pio adagiò lentamente la testa sul mio avambraccio sinistro. E morì”. “Ci fu un attimo di agitazione. Erano arrivati anche altri frati e si erano inginocchiati a pregare. Io e gli altri medici presenti, tentammo le solite manovre di rianimazione ma inutilmente. Allora, sollevammo il Padre e lo mettemmo sul letto. Eravamo tutti come svuotati, commossi, schiacciati da una immane tristezza. Ma dovemmo riprenderci in fretta perchè c’erano moltissime cose da organizzare: bisognava avvisare la questura, il prefetto, preparare la salma, stabilire dove mettere la bara, capire come rendere pubblica la notizia. La gente infatti stava cominciando ad arrivare al convento perché Padre Pio diceva la prima messa alle cinque del mattino. Ognuno di noi si assunse un compito”. “Quando poi il Padre fu adagiato nella bara, la prendemmo sulle spalle e la portammo in chiesa. Pero, il posto dove sistemarla non era ancora pronto e così momentaneamente la mettemmo in una stanzetta accanto alla sacrestia. E lì, io feci qualcosa che era dettato dalla curiosità di giovane medico. Non seppi resistere alla tentazione di entrare di nascosto in quella stanzetta per “spiare” le stigmate”. “Padre Pio portava sempre i mezzi guanti e solo durante la messa, quando li toglieva, si intravedevano le ferite. Però, io volevo vederle da vicino e quel momento sembrava essere l’occasione migliore. Così, io e l’ufficiale sanitario di allora, il dottor Grifa, senza farci vedere ci infilammo nella stanza e ci chiudemmo dentro. Mi tremavano le mani dall’emozione mentre sfilavo i guanti al Padre. Gli tolsi le calze e infine guardai il costato, sollevando un lembo della veste. Delle stigmate però non c’era più traccia. Non solo, ma la pelle era liscia, perfetta, senza nemmeno l’ombra di una cicatrice. Rimasi senza parole. Come ho detto, noi tutti avevamo visto molte volte le ferite sulle mani del Padre nel corso della messa. Ma ora, quei segni erano svaniti”. “Ero sconvolto, confuso, non riuscivo a capire. Solo in seguito, compresi la profondità di ciò che era accaduto perché le stigmate sono segni di sofferenza che vengono dati in vita e rimangono fino alla morte, momento in cui la sofferenza finisce. Compresi che la loro scomparsa, la totale assenza di qualsiasi cicatrice, era un ulteriore mistero. Uno dei tanti, bellissimi misteri che hanno sempre circondato Padre Pio”. (FdP){jcomments on}

 

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