Premessa: di questo articolo, pubblicato, a suo tempo, sul “blog di Corigliano”, si son perse le tracce e la memoria. Pare per motivi tecnici. Pertanto, non essendo più possibile consultarlo, riteniamo doveroso ripubblicarlo, ora, soprattutto per l’emozione che, a suo tempo, ha suscitato questa commovente pagina di storia, negli oltre 2500 lettori di allora, per i particolari di quell’estremo sacrificio di un marinaio che, volendo, avrebbe potuto, comodamente, imboscarsi tra, le tante formazioni partigiane, senza divisa e senza particolari segni di riconoscimento, evitando, così, di diventare ghiotto bersaglio di facili e non rischiose imboscate, mettendoci la faccia e mettendo in gioco la vita.

E siccome nelle vita, sin dai tempi affascinanti delle,letture di Omero, abbiamo parteggiato, sempre, per l’eroe perdente (Ettore) e giammai per lo scontato eroe vincente (l’invulnerabile Achille), sentiamo il dovere di riproporre il tragico racconto di quel tragico atto di onore e di morte, di un rossanese di nobili sentimenti a difesa dell’italianità della Venezia Giulia, terra che mi è particolarmente cara. CORIGLIANO 1942. Gli Aceto, con abitazione al 2º piano, sopra il mio, erano una famiglia numerosa, di provenienza rossanese, orfani di un grand’invalido della 1ª Guerra Mondiale. La madre, ”Zia Peppina”, era una donna instancabile che seppe far fronte alla mille difficoltà economiche, aggravate, anche, dalla carestia dovuta alle restrizioni alimentari della guerra. Dei sei figli maschi, due, i maggiori, erano già sposati mentre, dei quattro rimati in casa, Giovanni era il più grande, ed era l’unico che lavorava, da bigliettaio, nell’azienda di autolinee di mio padre. Gli altri tre erano studenti di scuola media e liceo. Mi ricordo che, la notte di Natale, a fine servizio, saliti, come al solito, in casa, per il versamento dell’incasso della “giornata, mio padre, che gli doveva voler bene come ad un figlio, lo volle con noi alla Cena di Natale. Accettò di buon grado, dopo aver avvertito la mamma che restava a cena da noi. E Zia Peppina, anche se, forse leggermente contrariata, in fondo, fu assai felice per la stima e la simpatia che si era saputo conquistare, anche perchè,s ebbene giovanissimo, era un amabile e piacevole conversatore, e incantava noi ragazzi. Inesorabilmente,anche per Giovanni ci fu l’inevitabile chiamata alla armi. Lo vedemmo partire, allegro e scanzonato, come sempre, addirittura carico di entusiasmo per l’avventura che stava per andare a vivere. Certo la ”mistica fascista” aveva fatto presa su quel giovane amante del rischio. Dopo qualche mese tornò, in licenza, nell’elegante blù della divisa di marinaio sommergibilista, l’elite delle nostre forze armate, che lo distingueva dai soliti fantaccini in grigioverde che vedevamo in giro. E fu l’ultima volta. Donò a mio padre una confezione di fiammiferi “Minerva”, quelli in legno, a strappo, nella versione gigante (10×12), allora una curiosità, perchè a stelo in legno piatto, con una grossa capocchia che strofinata, doveva dare una fiammata che durasse giusto il tempo di accendere una sigaretta, anche sotto la sferza del vento quando, navigando in emersione, si saliva sulla tolda per una boccata d’aria e di…. fumo. Mio padre la custodì a lungo. Le ultime sue notizie giunsero da Bordeaux, la più importante base sommergibilistica italiana dove, probabilmente, rimase fino all’otto Settembre del ‘43. Dal 25 Luglio ‘43 più nulla. E Zia Peppina, in quella straziante angoscia, ogni volta che incontrava militari, si metteva a raccontare di quel figlio. Si commossero perfino i severi soldati tedeschi, in sosta davanti a casa nostra che, superate le difficoltà di lingua, compresero quanto diceva. Uno di loro, immedesimatosi nello sconforto di quella madre, quasi dispiaciuto di non potere far nulla per mitigarne il dolore, disse:”Io non visto”. E dopo l’otto settembre si prodiga a rifocillare molti dei nostri sbandati soldati del “tutti a casa”che, affamati e stanchi, si fermavano sotto casa, a riprender fiato. E lei, a cucinargli un pò di pasta e qualcos’altro, serviti su un tavolinettto piazzato sul marciapiedi, sempre convinta che, una mamma, chissà dove, faceva altrettanto per suo figlio. E, a guerra finita, la tremenda comunicazione del Ministero della Guerra, insieme col portafogli di Giovanni, contenente i suoi documenti, alcune banconote e monetine francesi ed anche delle foto, tra cui quella, con dedica, di una graziosa francesina, il tutto proveniente dalla C.R.I. di Trieste. Diceva:”La Croce Rossa Cittadina di Fiume ha trasmesso all’Ospedale Militare Tedesco di Bisterza (Villa del Nevoso) i documenti di Aceto Giovanni, nato a Rossano il 3- 1- 1921. Il suddetto, in data 29-04-1945, veniva portato, già morto, in seguito a ferite all’addome, all’ambulanza da campo. MORTO IN GERMANIA – SEPOLTO A MUCICI. Lo sconcerto dei familiari fu esasperato, per molti anni, dalla ostinata e vana ricerca di una Mucici in Germania. Chi aveva stilato il documento aveva, evidentemente, inteso rendere un “servizio non richiesto”, facendolo, falsamente, figurare vittima di violenze subite in qualche Lager tedesco (era quella la moda ricorrente). Però,era notorio che, Fiume e Villa del Nevoso si trovavano in Jugoslavia, altro che in Germania ! Ma dov’era Mucici? L’amico Matessich, che era un profugo dalmata, insediato a Corigliano, suggeri ad Isidoro di cercarla in Istria dove molti nomi di paesi finiscono col suffisso “ici”. E fu questa la chiave che portò alla soluzione del “mistero”. Nei primi anni 60, studente d’ingegneria a Trieste, su preghiera di Isidoro, mi recai alla C.R.I. di Trieste, e lì la grande scoperta: nel documento originale che la Croce Rossa aveva trasmesso al Ministero, la frase MORTO IN GERMANIA, non esisteva. All’Istituto di Topografia della mia Facoltà, rimediai una carta topografica dell’Istria, preziosa, perchè redatta dal serio Istituto Geografico Militare Italiano, in dotazione all’esercito. La conservo ancora. Ci mettemmo in quattro, dopo esserci prefissato il compito di seguire col dito, ognuno di noi, uno dei quadranti assegnati. Il primo ad individuarla fu il mio caro collega, che ora non c’è più, il rossanese Federico Cerasoli, che lanciò un urlo:MUCICI! Era, in Istria, a pochi chilometri dal mare di Abbazia che, poi, a sua volta, è vicinissima alla dalmata Fiume. Avvisai subito Isidoro che si precipitò a Trieste per andare, insieme, a posare un fiore sulla sua tomba. Ottenuto il Visto dal Consolato Jugoslavo,infine, partimmo. Durante il viaggio Isidoro mi confidò di essere a conoscenza del fatto che Giovanni, dopo l’otto settembre del ‘43, aveva fatto la scelta di arruolarsi, volontario, nella X^ M.A.S. di Junio Valerio Borghese. Verità prima sottaciuta, per timore di essere considerato poco …”politically correct”. Come se non bastasse aver pagato con la vita di un fratello il rigore folle delle fazioni. Ovunque incontrammo cortesia della popolazione, ma ostile guardinga diffidenza da parte di MILICIA e Militari. Nei pressi di una caserma di soldati titini, vedendoci intenti a consultare quella Carta, un rude sottufficiale, individuatici, per via della macchina, come italiani, si avvicinò e mi strappò (sic) dalle mani quella Carta preziosa che, in quella versione precisa e dettagliata, loro non possedevano. E la studiò con voluttuoso malcelato interesse. A momenti ce la requisiva e,magari,accusandoci di spionaggio. A stento, e faticosamente, anche in dialetto triestino, che loro capivano benissimo, riuscii a spiegare lo scopo di quella visita. Forse, una volta tanto, la pietà prevalse sull’odio e sul rancore. A Mucici, finalmente, dopo le prime timide richieste di notizie, qualcuno ci suggerì di rivolgerci al sagrestano della chiesa. Poverettto, si ricordava benissimo l’episodio, ma non accennò minimamente alle modalità del decesso che disse di ignorare. Comunque per più precise informazioni ci consigliò di chiedere al “picamorto”,cioè il becchino del locale cimitero, che aveva eseguito l’inumazione, anche se ben 19 anni prima. Rintracciammo il “picamorto” e, quando chiedemmo dov’era la tomba, con grande sconcerto e disperazione di Isidoro, disse che, dopo dieci anni, come del resto anche in Italia, le salme inumate (non tumulate), venivano riesumate e poste nell’ossario comune, senza possibilità alcuna di recupero o di futura identificazione. Alla domanda se ricordava qualcosa su quella morte, disse che il decesso era avvenuto alla vicina Stazione ferroviaria di Mattuglie, sulle alture a ridosso di Abbazia, almeno così gli avevano riferito, mentre era impegnato, con un commilitone, a scaricare, da un vagone, non meglio precisate “BOMBE”. Versione abbastanza puerile, perchè, quando si scaricano bombe, e se veramente si scaricano bombe, non potrà mai avvenire una qualsiasi esplosione. E poi, un’esplosione di bombe non si limita a procurare solo “ferite all’addome”. Tutt’altro. Dilania e devasta tutto il corpo. Se mai, ferite all’addome, potevano essere quelle inferte da una raffica di mitra, a seguito di un’imboscata di “partizan” titini, quelle sì, sparate con canna ad altezza di addome. Al povero Isidoro non restò che accendere due lumini su quell’ossario ipogèo, coperto da un lastrone di cemento. Il viaggio di ritorno fu caratterizzato da un lungo,”loquace” silenzio, interrotto da sporadici monosillabi, in risposta alle poche parole che ci scambiavamo. È inutile precisare il bene che, anch’io, volevo a Giovanni. La povera Zia Peppina, tutte le volte che partivo per Trieste, mi metteva in tasca i soldi, pregandomi di recarmi a Mucici, per accendere due lumini su quell’ossario. E non ci fu verso, mai, di convincerla che poteva anche fare a meno di darmi quei soldi, perchè, comunque, l’avrei fatto, e con affetto. Ma Zia Peppina, ribadiva: “Una mamma, il dolore e la pietà, se li deve pagare da sè”.

 Ernesto SCURA

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