Categoria: cultura
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(Pubblicato sul quotidiano “il Giornale” del 31 03 2020 )

Mio suocero, ungherese di Transilvania, omonimo di IMRE NAGY, l’infelice vittima della rappresaglia sovietica nell’Ungheria del 1956, prestava, durante il secondo conflitto mondiale, il servizio militare a fianco dell’alleato tedesco.

Il suo battaglione fu fatto prigioniero dall’Armata Rossa, nel 1945, in Austria, a guerra ormai già finita.

Venne il giorno che li fecero salire su un treno diretto in Transilvania.

Vi lascio immaginare la gioia di quei soldati che già prefiguravano il ritorno a casa, per gustare il loro goulash e la loro grappa che, poi è la squisita aromatica “Palinka”.

Arrivati in Transilvania, appena in vista della sua città, Nagyvarad, ad IMRE ed ai commilitoni cominciò a battere il cuore per l’emozione, e il ritmo dei battiti era inverso al ritmo, della locomotiva che, man mano che ci si avvicinava alla stazione di Nagyvarad cominciò a rallentare, come indizio dell’imminente fermata. Ma, arrivati nella posizione della prevista fermata, quella locomotiva cominciò a cambiare il ritmo del suo “ciuff ciuff” con un graduale crescendo da cui si capiva che, non solo non si sarebbe fermata ma, addirittura, aumentava la velocità e proseguiva la corsa. Rimasero di ghiaccio i poveri soldati ungheresi e, una volta giunti al porto di Costanza, dove furono imbarcati con ormai certa destinazione Odessa, finalmente capirono la malvagità di quella beffa che, a guerra ormai finita, li volle prigionieri nella Russia di quello Stalin che non disdegnava manodopera a costo zero.

E per cinque anni, il povero IMRE, a guerra già finita, lavorò prima in miniera, dove rischiò la vita per un allagamento e poi in un Kolkhoz.

Quando lo tirarono fuori, dopo tre giorni con l’acqua fino all’inguine, gli “somministrarono” un po’ di vodka, e fu l’unica e sola volta.

Per sua fortuna, una dottoressa sensibile al “fascino ungherese”, fu compiacentemente disposta a dichiararlo inabile ai lavori in miniera, suggerendo il lavoro nei campi. E fu la sua salvezza quando dovette accudire ai cavalli di cui lui, da buon ungherese, era un vero esperto.

Quì, almeno, alla poca e magra “sbobba” che gli davano da mangiare, poteva aggiungere qualche animaletto (ghiri, ricci, rane e talpe), oltre a erbe selvatiche e radici da cuocere con fuochi d’emergenza. Dopo tre anni di guerra e dopo cinque lunghi anni da...”Prigionieri di pace” a servizio dI Stalin, in spregio a tutte le convenzioni internazionali, ai pochi sopravvissuti fu, finalmente, concesso di tornare a casa.

E quale fu l’ultima ed amara sorpresa di IMRE? Arrivato alla fatidica Stazione della sua città, dove aveva subito quella prima beffa, quando il treno non si fermò, la scritta che campeggiava in alto non era più Nagyvarad. La sua città era diventata rumena,con il nome di Oradea, perchè Stalin aveva così deciso, per punire l’Ungheria, fedele alleata della Germania, donando la Transilvania alla Romania.

E diventò rumeno, IMRE, senza saper articolare nemmeno una parola della lingua rumena rumena. Ma, in fondo, non tutti i mali vengono per nuocere.

Ad IMRE, pur essendo cittadino rumeno, la sua riconoscente Ungheria ha sentito di dovergli assegnare, per ripagarlo, almeno in parte, delle tribolazioni subite durante la prigionia, in qualità di soldato ungherese, una sostanziale pensione, per quei cinque anni di sofferenze.

Quei cinque anni gli hanno procurato un’indennità pensionistica pari a quella erogatagli dal governo rumeno per i cinquant’anni di lavoro svolto nella Romania comunista.

È da pochi mesi che IMRE non c’è più. Però, per molti anni, da pensionato, ha potuto godere di vantaggi che nella Romania di oggi, sono stati pari a quelli di un primario ospedaliero.

Non che i primari, in Romania, godano di chissà quali privilegi, ma i pari grado di IMRE, in Romania, sono quasi alla fame. E ho detto tutto, o, almeno credo, di aver detto tutto.

 

Ernesto SCURA